Il Vangelo ci presenta l’incontro nel tempio tra Giuseppe e Maria e il bambino Gesù con il vecchio Simeone. Noi siamo così abituati ad ascoltare o leggere questo episodio da dare per scontate le modalità con cui si svolge. Ma se dovessimo pensare per la prima volta all’incontro tra un uomo e un piccolo bambino riconosciuto come il messia, un messia atteso per tutta la vita, ci aspetteremmo ben altro rispetto a quanto l’evangelista Luca ci narra. Penseremmo, cioè, a qualcosa più connotato dalla commozione di un anziano: un “grazie” ripetuto più volte, qualche parola balbettata, magari persino una lacrima che spunta sugli occhi e scende lungo la barba bianca. Niente di tutto questo. Il Vangelo non dà spazio a commozione o ad altri sentimenti, ma mette sulla bocca di Simeone una profezia.
La profezia nella Scrittura – ormai lo abbiamo imparato – non è una specie di oroscopo circa il futuro, non è la descrizione di una generica speranza, non è una formulazione ambigua che lascia spazio a mille interpretazioni. No, la profezia è la lettura della storia dal punto di vista di Dio, una prospettiva che supera tutti i nostri modi di vedere e di sentire, che inevitabilmente si fermano alla superficie della realtà. La profezia va, invece, nel profondo misterioso e vero delle vicende umane. Ciò che pronuncia Simeone è quindi una profezia, anzi una duplice profezia, una prima relativa a se stesso in rapporto al bambino e una seconda che intreccia i destini del bambino con quelli della madre. Vorrei fermarmi in particolare sulla prima profezia e sulle quattro parole attorno a cui si esprime: pace, salvezza, luce e gloria. Le presento non in questo ordine, ma partirei dalla luce.
La luce nel Vangelo, nella Scrittura non è tanto il contrario del buio – una semplice assenza temporanea della luce – ma delle tenebre. Le tenebre sono l’opposto della luce perché inghiottono non solo la luce, ma la stessa realtà. Il buio no: quando riaccendi la luce le cose sono al loro posto. Le tenebre, invece, soffocano, estinguono, uccidono. Gesù mette spesso in guardia nei confronti delle tenebre, usando per esempio la metafora dell’occhio: «La lampada del corpo è il tuo occhio. Quando il tuo occhio è semplice, anche tutto il tuo corpo è luminoso; ma se è cattivo, anche il tuo corpo è tenebroso. Bada dunque che la luce che è in te non sia tenebra. Se dunque il tuo corpo è tutto luminoso, senza avere alcuna parte nelle tenebre, sarà tutto nella luce, come quando la lampada ti illumina con il suo fulgore» (Lc 11,34-36). Gesù, inoltre, sa che spesso gli uomini amano le tenebre e ne spiega anche il motivo: «E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Gv 3,19-21). E alla fine, Gesù, nel momento della sua cattura è consapevole di essere dato in balia delle tenebre: «questa è l’ora vostra e il potere delle tenebre» (Lc 22,53).
Luce e tenebre: quanto è attuale e vero questo binomio nella vicenda di Giulio. Anche lui è stato consegnato al potere delle tenebre e quanto è stato faticoso in quest’anno il tentativo di fare luce, di trovare la verità. In questo mondo vinceranno sempre le tenebre? C’è una parola all’inizio del Vangelo di Giovanni che dice di no, che alla fine vince la luce. E la luce è proprio il Verbo che si è fatto carne: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta» (Gv 1,4-5)
Una seconda parola della profezia di Simeone: pace. Pace è qualcosa a cui tutti aspirano, ma purtroppo non operando per la pace, ma per la guerra. Come è attuale quell’antico detto romano: “si vis pacem, para bellum”, se vuoi la pace, prepara la guerra. In realtà chi “para bellum”, vuole la guerra e non la pace, perché una pace sostenuta dalla guerra è solo un intervallo tra una guerra e l’altra, il tempo utile per ricaricare le armi ed essere pronti a ripartire. Purtroppo mentre chi vuole la guerra è sempre in attività, chi vuole la pace e la sta godendo – come noi europei da tanti decenni – si illude sempre che sia ormai un dato acquisito e spesso non si dà da fare. La pace, invece, non è qualcosa che nasce per caso, ma è frutto sempre di un’azione di verità, di giustizia, di dialogo, di riconciliazione, persino – e so di dire una parola estremamente impegnativa – di perdono verso chi ha compiuto il male e l’ingiustizia. Anche la pace interiore dentro di noi non è un’ovvietà, ma nasce da una ricerca di verità, di luce, di interiorità. La pace di Simeone è stata frutto di una vita di fedeltà e di ricerca.
Una terza parola: salvezza. Ci conduce a riflettere su ciò che può realmente condurre alla luce e alla pace. Non il solo desiderio umano, non il solo impegno deciso e costante, non persino il sacrificare se stesso e la propria vita: la salvezza radicale dell’umanità può venire solo da un dono, il dono di Dio. Un dono che non è un qualcosa, un gesto generoso di chi sta all’esterno e contempla dall’alto questa umanità così travagliata. La salvezza in realtà è un Salvatore: Dio che si impasta del sangue e della carne dell’umanità. E’ sempre impressionante ascoltare il brano della lettera agli Ebrei di oggi, per il suo parlare appunto di carne e il suo sapere di sangue: «Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo ne è divenuto partecipe». E più oltre si dice che «doveva in tutto rendersi simile ai fratelli». Si è reso così simile da condividerne la prova della morte: «proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova». Gesù è un salvatore che non si limita a illuminare dall’alto le tenebre dell’umanità, ma vi è entrato dentro, venendone anche soffocato, ma vincendole poi con la sua risurrezione.
E veniamo così all’ultima parola: gloria. Ed è davvero l’ultima. Le parole penultime sono violenza, ingiustizia, tortura, guerra, morte. Spesso rischiamo di considerarle come ultime e definitive e tutto sembra convergere a sostenere questa nostra realistica convinzione. No, sono forti e tremende, ma sono solo le penultime. L’ultima parola è vita, risurrezione e gloria. La gloria della luce, della pace, dell’amore. Se siamo qui in chiesa questa sera è perché crediamo che è e sarà così.
† Vescovo Carlo