Venerdì 18 ottobre 2024 si è svolta nel Duomo di Cervignano la Veglia missionaria diocesana al termine della quale è stato consegnato il mandato ai catechisti della diocesi. Pubblichiamo di seguito la riflessione del vescovo Carlo.
I vescovi, penso lo immaginiate, ricevono a volte dei regali, soprattutto in alcune circostanze. Come forse potete intuire – ma non vorrei offendere nessuno – sono spesso di poca utilità, almeno per il vescovo, e vengono messi da qualche parte (ovviamente, non intendo riferirmi ai dolci, apprezzati da vescovi golosi…): appoggiati su scaffali dello studio oppure collocati su tavolini nei corridoi di passaggio tra una stanza e l’altra dell’episcopio o nascosti dentro capienti cassetti.
C’è però un dono, tra quelli che ho ricevuto al mio ingresso nell’arcidiocesi di Gorizia 12 anni fa, di non grande valore commerciale (8 euro), che mi ha parecchio incuriosito: un libretto rosso con un titolo in latino. Presentava degli strani racconti, di cui alla prima lettura non capivo il significato, perché intuivo che si riferivano a un contesto che non conoscevo. In particolare mi aveva colpito un capitolo intitolato, “Volo Ronchi-Abidjan”: parlava di un volo di 12 aerei charter, ognuno con 144 persone, dall’aeroporto appunto da Ronchi, verso la capitale della Costa d’Avorio. Il capo di quel numeroso gruppo di persone era identificato come il Vescovo, che alla giovane hostess che gli chiedeva: “perché ve ne andate? Ho visto che non c’è data di ritorno sul vostro biglietto”, rispondeva così: “Qui forse abbiamo dato tutto ciò che potevamo… Sono quasi milleottocento anni che tentiamo in tutti modi… Non si può morire attendendo i propri figli ritornare”.
Avete compreso qual era il contenuto di quel racconto? Io l’ho capito qualche settimana dopo quando ho saputo che la missione della nostra diocesi era (ed è) in Costa d’Avorio (a proposito, colgo l’occasione per chiedere una preghiera per mons. Giuseppe Baldas, che per molti anni ha guidato il Centro missionario diocesano, che in questi giorni si trova in ospedale). Il tema del racconto era il trasloco dei pochi cristiani rimasti qui da noi, in una realtà ormai del tutto scristianizzata, verso un luogo dove la fede cristiana è viva e ha un futuro promettente, appunto l’Africa.
Quella narrazione mi è tornata in mente riflettendo sulla veglia missionaria di stasera che mette insieme la testimonianza di una famiglia missionaria che è stata in Kenia e di due giovani che ritornano proprio in Costa d’Avorio innamorate di quella terra, l’accoglienza di un sacerdote del Ruanda e il mandato ai catechisti e alle catechiste della diocesi. Se non avessimo scelto di vivere questo anno all’insegna della speranza, mi verrebbe da auspicare che l’aeroporto di Ronchi, in fase di potenziamento, non preveda un volo diretto per Abidjan, altrimenti qualche catechista, delusa o deluso per il tanto impegno e i pochi risultati, un pensiero verso l’Africa lo farebbe… Questo desiderio di fuga potrebbe trovare un sostegno dal brano di Vangelo che papa Francesco ha scelto per la giornata missionaria di quest’anno, una parabola non troppo entusiasmante con i primi invitati che non rispondono alla chiamata alla festa di nozze, anzi uccidono persino i messaggeri che portano l’invito, e che si conclude con l’espulsione di uno dei secondi che accedono al banchetto per finire con una frase molto preoccupante: “molti sono i chiamati, ma pochi eletti”. Dobbiamo allora preparaci tutti a traslocare, ad andare via da questa Italia e da questa Europa che sempre più perde qualsiasi riferimento a Dio, per recarci in altre parti del mondo dove Dio è invece evidente? Non si tratta di paesi dove tutti sono santi e sante – il peccato originale è la realtà più universale che ci sia e c’è anche in Costa d’Avorio… –, ma dove la dimensione religiosa ha un senso ed è viva. Cosa che da noi non è.
Ho provato a porre a un paio di nostri bravi sacerdoti, molto attenti alla realtà e impegnati con i giovani, una questione che mi preoccupa: come mai i ragazzi dopo anni di catechesi (e, possiamo aggiungere, di insegnamento della religione) non solo non vengono più a messa, ma sembrano non avere alcuna relazione con Gesù? Pare che per loro Gesù e qualsiasi altro personaggio di cui sentono parlare a scuola, come Giulio Cesare o Napoleone, siano la stessa cosa… Sono forse poco preparati e poco capaci i nostri catechisti e le nostre catechiste? No – lo dico io – perché ho constatato, nella breve visita pastorale dell’altro anno dedicata a loro, quanto sono appassionati, preparati, inventivi, geniali. Allora è sbagliata l’impostazione della nostra catechesi? Ho interrogato a questo proposito alcuni amici vescovi di diocesi che hanno tentato vie più coraggiose di quella più tradizionale che seguiamo noi, ma mi hanno detto che al grande dispendio di energie sono corrisposti ugualmente scarsi frutti (qualche diocesi sta persino pensando di tornare a vecchi schemi di catechesi meno impegnativi, tanto il risultato è uguale…).
I preti da me interpellati mi hanno dato una risposta che mi sembra convincente: il problema è che Gesù, pure fatto conoscere in anni di catechesi, è fuori dal contesto emozionale normale dei ragazzi, è confinato nell’ora di catechesi o della messa e non è in casa, a scuola, tra gli amici, è del tutto estraneo al contesto culturale in cui loro vivono. Ma questo vale anche per la maggioranza degli adulti. E dobbiamo riconoscere che si tratta di un contesto culturale che noi non siamo in grado di cambiare.
Che cosa fare allora? Rinunciare? Rassegnarsi al tramonto della catechesi e, più ancora, della fede? Uno di loro mi ha dato una risposta interessante: occorre continuare a proporre Gesù nonostante tutto a ragazzi e ad adulti, a tenere viva qui la comunità cristiana, a conservare con cura i semi del Vangelo in attesa della primavera che comunque ci sarà, perché il Signore non ci abbandona e ora ci chiede di sperare con l’assistenza del suo Spirito.
Care catechiste, cari catechisti: queste indicazioni molto sagge è il mandato che voglio affidarvi questa sera, ringraziandovi di cuore per il vostro impegno, profondamente convinto che “finché c’è speranza, c’è vita”.
+ vescovo Carlo