Mercoledì 21 dicembre l’arcivescovo Carlo ha presieduto la liturgia eucaristica nella chiesa di S. Maria Assunta a Gorizia per i volontari della Caritas diocesana. Pubblichiamo di seguito la sua omelia.
Fa una certa impressione ascoltare oggi, primo giorno di inverno, la voce dell’amato del Cantico della prima lettura che dice: «l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornatoe la voce della tortora ancora si fa sentirenella nostra campagna. Il fico sta maturando i primi fruttie le viti in fiore spandono profumo». Che la liturgia abbia sbagliato clamorosamente la stagione?
Ma è l’Amato che parla, quell’Amato che ci ama così tanto da diventare uno di noi. E la venuta dell’Amato, anche se avviene in pieno inverno, scioglie il gelo del nostro cuore, rompe il ghiaccio delle nostre paure, rimette in moto le nostre gambe bloccate dal freddo, riscalda le nostre mani fredde perché divengano capaci di tenere carezze.
L’Amato viene a rinsegnarci l’Amore. Non si finisce mai di impararlo, anche quando ci sembra di essere generosi, attenti agli altri, operativi nella carità, efficaci nell’aiuto. No, l’amore non può mai essere dato per scontato, non è qualcosa di acquisito una volta per sempre. L’amore è come il fuoco: non puoi fermarlo perché resti per sempre e non puoi neppure dire che ormi c’è una volta per tutte, ma va continuamente nutrito, altrimenti si spegne, resta un po’ di brace sotto la cenere, poi più nulla: solo cenere.
Come si fa a nutrire l’amore? Non con il moltiplicare i sentimenti, le emozioni, ma neppure aumentando le generosità, i gesti, gli impegni. L’amore si nutre con l’amore: si ama perché si è amati. Da dove viene l’amore che ci nutre? Certo da chi ci vuole bene, ma anche – o soprattutto? – da chi amiamo. Amando si viene amati o, comunque, anche quando si è incompresi, anche quando sembra che il nostro amore sia rifiutato, c’è comunque un ritorno d’amore che ci nutre. Non dobbiamo, infatti, mai dimenticare che siamo figli di Dio, creati a sua immagine e somiglianza, e che Lui è amore: se amiamo potenziamo per così dire il nostro stesso essere, ci realizziamo, siamo noi stessi. Ecco perché amando ci guadagniamo comunque. Ecco perché l’amore è sempre “interessato”, nel senso che è ciò che da consistenza al nostro esistere.
Ma l’amore che ci nutre, anzi che ci fa esistere, non è solo o principalmente quello degli altri: è anzitutto l’amore di Dio. E’ Lui il Padre e il Creatore: esistiamo solo perché ci ha creati per amore e per amare. E’ Lui la misericordia: non siamo perduti anche dopo che abbiamo rifiutato l’amore (e lo abbiamo fatto fin dall’inizio) solo perché Lui è il Salvatore. E’ Lui la fonte di ogni amore che sperimentiamo o abbiamo sperimentato, a partire da quello dei nostri genitori.
Per mantenere la relazione fondamentale con Dio è necessario un elemento decisivo che è la fede. La fede è il presupposto per l’amore. Ma allora chi non è credente non può amare? No di certo, perché comunque ogni amore è riflesso di Dio anche se uno non lo sa o se persino non vuole che sia così. Ma chi ha il dono della fede lo sa e ha il grande dono di potersi rivolgere a Dio per ringraziarlo del suo amore e implorare il dono del suo amore.
L’intreccio tra fede e amore ci viene presentato con molta evidenza dal Vangelo. Di solito l’episodio di Maria che va da Elisabetta viene considerato come un’espressione di carità di Maria verso l’anziana parente. Anche quel «andò in fretta verso la regione montuosa» viene interpretato come una particolare sollecitudine di Maria. Ma è proprio così? In realtà nel Vangelo non si dice che Maria sia andata da Elisabetta per aiutarla e neppure che poi l’abbia aiutata. La stessa Elisabetta non le dice: “brava, meno male che sei venuta a darmi un mano che ne ho proprio bisogno…”. Non la elogia, né la ringrazia per questo, ma afferma: «beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto». La loda quindi per la sua fede nel Signore.
Per comprendere questo dobbiamo rifarci al brano dell’annunciazione. L’angelo non parla a Maria di Elisabetta per invitarla ad andare presto ad aiutare la parente. No, gliene parla per darle un segno di fronte alla sua obiezione: «Come avverrà questo?». Un segno che fa concludere all’angelo che «nulla è impossibile a Dio»: fidandosi di questa non impossibilità per Dio, Maria dice il suo sì. Va quindi da Elisabetta perché prende sul serio il segno che le è stato dato e diventa a sua volta segno per Elisabetta e il suo bambino. Da qui nasce ovviamente la vicinanza premurosa di Maria alla parente: si ferma nella casa di Elisabetta – dice il Vangelo di Luca – per circa tre mesi, fino cioè alla nascita di Giovanni.
Fede e amore. Fede come fidarsi della Parola di Dio, come sentirsi amati da Lui, come sentire che la nostra vita è guidata dal suo amore anche quando sembra chiederci cose impossibili. E allora noi stessi diventiamo capaci di cose impossibili. Non è forse qualcosa di umanamente impossibile dare tempo, cuore, mani a chi ci è estraneo, a chi magari neppure ci dice grazie, a chi ci spaventa con la sua povertà? L’amore è umanamente impossibile, ma la fede ci dice che per Dio tutto è possibile, anche trasformarci da persone chiuse, pigre, grette, ripiegate su di sé in persone capaci di amare anche quando costa, e di amare con gioia, persino quando si hanno le lacrime agli occhi e si sente una stretta al cuore.
Penso che tutte le persone qui presenti sanno che è così: sia chi si è convertito all’amore – e forse alla fede – quasi di colpo, sia chi è maturato a poco a poco nel cammino della fede e della carità. In ogni caso tutti dobbiamo ringraziare il Signore e fidarci del fatto che per Lui niente è impossibile: persino convertirci…
vescovo Carlo