La beatitudine del servire
Il "mandato" ai catechisti della diocesi
01-09-2016

Giovedì 1 settembre 2016, si è conclusa la quattro giorni di aggiornamento per i catechisti della diocesi ospitata dalla sala parrocchiale di Romans d’Isonzo.

Nella parrocchiale dedicata a Santa Maria Annunziata, l’arcivescovo Carlo ha presieduto la liturgia del “mandato” per i catechisti commentando il passo evangelico si Gv 13,17.

«Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica» (Gv 13,17).
Il termine “beato/beati” (makários/makárioi) nei Vangeli è un vocabolo pesante, forte. Purtroppo la traduzione italiana con “beato/beati” non rende tutta la pregnanza dell’originale. Beato, infatti, è una parola che ci fa riflettere su qualcosa al di fuori della nostra esperienza, ci fa pensare ai beati del cielo, non alla nostra realtà. Lo si usa poco nel linguaggio corrente, se non in qualche espressione proverbiale o ironica del tipo: «beata lei, che è riuscito ad andare in pensione; beata gioventù: beato te che non ti lamenti mai!; beato lui che non capisce niente!; beati gli ultimi, se i primi sono onesti». Anche tentare di rendere il “beato” evangelico con “felice”, “soddisfatto”, “contento”, ecc. non sembra trasmettere la forza del termine usato dal Signore. Perché Gesù non parla di una felicità o soddisfazione passeggera, ma della realizzazione piena e profonda della persona, della sua salvezza. In un certo senso, beato è allora sinonimo di “salvato”.
Giovanni non presenta come Matteo e Luca un elenco di beatitudini all’inizio di un discorso di Gesù, ma solo due beatitudini: quella del brano di oggi (Gv 13,1-12) che riguarda il servizio e quella detta a Tommaso – «beati quelli che non hanno visto e hanno creduto» (Gv 20,29) – che concerne la fede. Servizio e fede: binomio interessante…
Tornando alla beatitudine di oggi, è significativo che essa sia legata non al sapere, ma a un sapere che diventa messa in pratica. Tutti sappiamo bene che la vita, in particolare la vita cristiana, è servizio. Ma un conto è saperlo, un conto è viverlo. La beatitudine non sta nel sapere, ma nel praticare. Devo però correggere ciò che ho appena affermato: quello che sappiamo dal Vangelo non è tanto il principio che la vita è – o dovrebbe essere – servizio, ma quello che ha fatto Gesù. La beatitudine per il cristiano non è semplicemente servire in forza di un principio o di una convinzione interiore, ma è fare come Gesù. Già in altri passi dei Vangeli Gesù si propone come maestro da imitare e da cui imparare, qui però il gesto da Lui compiuto ha una rilevanza eccezionale. Siamo, infatti, nel contesto dell’ultima cena, alla immediata vigilia della passione. Per presentare quel gesto l’evangelista trascura persino di raccontare l’Eucaristia…
L’inizio del brano ha poi una solennità unica. Ve lo rileggo: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine. Mentre cenavano, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo, Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, prese il pane, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli e disse …». Ci starebbe bene, no?, dopo quel preludio così solenne il racconto dell’Eucaristia… e invece il Vangelo così prosegue: «si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto».
Impressionante. E’ come se un grande musicista componesse un’ouverture incredibilmente bella, sonora e appassionante e poi proseguisse la sinfonia con una flebile e semplice melodia di un flauto dolce. Qualche esegeta ha tentato di dire che l’inizio del capitolo 13 non è il prologo alla lavanda dei piedi, bensì all’intera passione: ma il senso della passione è già tutto lì, in quel gesto da schiavo.
Servire come Gesù: quella è la nostra realizzazione. Servire dove ci viene chiesto, secondo la grazia ricevuta, come afferma Pietro nella prima lettura di stasera. Nella libertà, certo. Si può persino rifiutare quanto proposto, ma così si sceglie la tristezza e non la beatitudine, non si prende il largo – per citare il Vangelo della Messa di oggi -, ma ci si chiude nelle acque stagnanti del porto. Nella vita cristiana si è sicuri al largo e non in porto.
Grazia e non anzitutto compito o incarico: perché se servire è realizzarci, se ci viene data la possibilità di farlo è per noi una grazia di cui essere continuamente grati. Se ci è stata la grazia di essere catechisti, non possiamo che ringraziare continuamente il Signore.
Ci sono alcune condizioni per servire bene. Diverse sono indicate da Pietro (1Pt 4,7-11). Sarebbe da rileggere l’intero brano: la sobrietà, la preghiera, la carità, la non mormorazione.
Altre due condizioni sono presentate dal Vangelo. La prima è quella che Pietro è invitato a comprendere e cioè che è il Signore anzitutto che ci serve. Ci serve Lui per primo e ci servirà. Bellissime le parole contenute nel Vangelo di Luca, quando Gesù così descrive il premio per il servo fedele: «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli» (Lc 12, 37). Noi siamo chiamati a servire solo in questa vita, nella vita futura e definitiva sarà il Signore a servirci: il gesto compiuto nell’ultima cena è quindi solo un anticipo di quello che il Signore prepara per noi.
La seconda condizione è quella messa in pratica da Gesù per servire: togliersi le vesti. Non si può servire impacciati da troppe vesti che esse siano il nostro orgoglio, le nostre aspettative, il nostro desiderio di riconoscimenti o di titoli, la nostra tendenza all’autocelebrazione,… tutto questo va lasciato da parte.
Stasera c’è un mandato per voi come catechiste e catechisti. In realtà, a nome del Signore e della Chiesa, non vi do un incarico ma vi dono la possibilità di essere beati. Qualcosa di grande e di bello di cui voi per primi essere riconoscenti.

+ vescovo Carlo