Cerchiamo davvero Dio?
Omelia nell'Epifania del Signore 2022
06-01-2022

Nel giorno dell’Epifania, giovedì 6 gennaio 2022, l’arcivescovo Carlo ha presieduto la liturgia eucaristica in S. Ignazio.

L’evangelista Matteo è particolarmente sobrio circa il racconto della nascita di Gesù. Il capitolo primo del suo Vangelo inizia presentandoci la genealogia di Gesù, l’elenco cioè delle diverse generazioni che lo hanno preceduto a partire da Abramo. A dire la verità si tratta di una genealogia che solo legalmente riguarda Gesù, perché termina con Giuseppe e non dice che Gesù è figlio di Giuseppe, ma solo che Giuseppe è «lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo». Il resto del capitolo presenta il dramma di Giuseppe che scopre la sua promessa sposa incinta per opera dello Spirito Santo e non si sente degno di prenderla con sé finché non viene rassicurato in sogno dalle parole dell’angelo. Successivamente l’evangelista non descrive il viaggio verso Betlemme, la nascita di Gesù, l’annuncio ai pastori, la circoncisione, la presentazione al tempio come fa Luca nel sul Vangelo, ma sintetizza tutto scrivendo: «Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa; senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù».

Dopo questa frase inizia il racconto che abbiamo ora ascoltato circa la venuta dei magi. Anche questo è molto sobrio: Matteo non ci dice chi siano questi magi, non precisa il luogo da dove vengono, non specifica che cosa sia la stella che hanno visto spuntare, non spiega il perché ritornano al loro paese, non accenna a un cambiamento della loro vita. Ci dice però l’essenziale: il loro mettersi in viaggio, il loro seguire la stella, il loro informarsi sul luogo della nascita del re presso Erode, la gioia grandissima nel vedere la stella, l’entrare nella casa, il vedere il Bambino e sua madre, l’adorarlo, l’offrire i loro doni, il tornare per una strada diversa al loro paese.

Troppo poco per noi e per la nostra curiosità o, più profondamente, per il nostro desiderio di sapere e di capire? Verrebbe voglia di provare, se fosse possibile, a interrogare anche noi segretamente i magi e farci spiegare i punti oscuri della loro vicenda, il trovare una risposta alle domande che sopra ho elencato senza accontentarci del racconto di Matteo. E se invece restassimo proprio solo ai dati del Vangelo e ci rispecchiassimo nella vicenda dei Magi, cercando di vedere in essa la nostra personale esperienza di fede? Proviamo.

Farei prima una premessa e cioè l’opportunità se non la necessità di prendere coscienza del nostro credere, dove per credere non intendo qui riferirmi al contenuto della fede, ma al nostro rapporto personale con Dio, con Gesù, con il Vangelo. Perché in questo consiste la fede. Mi sembra qualcosa di importante questa presa di coscienza, altrimenti il rischio è di vivere la nostra fede o a un livello alquanto superficiale basato su alcuni riferimenti religiosi che però non incidono nella nostra vita o, al più, come una serie di atteggiamenti frammentati: il venire in chiesa, il pregare, il fare la comunione, confessarsi, il leggere qualche pagina di Vangelo, il compiere qualche gesto di carità. Invece la nostra vicenda di fede, se vera, non può che coincidere con il nostro essere e con il nostro rapportarci con Colui che è l’origine e la meta della nostra vita. Perché la fede è questione di vita, anzi è la nostra vita, costituita da realtà normali il più delle volte persino banali, ma che alla fine può trovare il suo senso solo nel rapporto con il Signore.

Ed ecco allora un primo elemento che ci viene offerto dall’esperienza dei magi: la ricerca. Cerchiamo davvero Dio? È in fondo la cosa più importante della nostra vita? O la nostra fede è qualcosa di scontato, di fermo, di immobile o perché non approfondita o anche perché, pur conosciuta in teoria, non tocca la nostra vita? Se fosse così, saremmo simili in questo ai capi dei sacerdoti e agli scribi del popolo di Gerusalemme che hanno la risposta giusta alla domanda dei magi, ma non si muovono da Gerusalemme.

Una fede che sia una ricerca, un cammino anche travagliato tra luci e ombre, certezze e dubbi, generosità ed egoismi è certamente più vera di una fede considerata un possesso chiaro e immutabile. Una fede intrecciata con la nostra vita, con le vicende grandi e piccole della nostra esperienza umana. Una fede che muta e si lascia interrogare se siamo sereni o preoccupati, se stiamo bene o se siamo ammalati o anche solo se abbiamo paura dell’epidemia, se viviamo rapporti costruttivi o conflittuali nella nostra famiglia, se siamo soddisfatti o agitati per il nostro lavoro e così via. E dentro tutto questo confrontandoci con il Signore, cercarlo, interrogarlo, sentirlo come importante.

Un secondo elemento della vicenda dei magi è la stella che guida il loro cammino e dona loro una grandissima gioia. Che cosa può essere per noi questa stella? Che cosa guida il nostro cammino di fede? Penso che ognuno di noi debba trovare una risposta e anzitutto chiedere al Signore il dono di avere comunque una stella. Può essere il riferimento alla Scrittura, magari anche solo un versetto che illumina la nostra vita. Può consistere in un rapporto di devozione e di confidenza con Maria o con i santi. O ancora la nostra stella può avere il volto di una persona (o anche di più persone) che sono per noi un riferimento, un esempio, una guida nel nostro cammino di fede. È importante avere nella vita una stella. È un dono grande.

Infine un terzo punto su cui ci possiamo soffermare guardando all’esperienza dei magi è ciò che compiono nella casa di Betlemme. Il Vangelo usa sei verbi: entrare, vedere, prostrarsi, adorare, aprire, offrire. Potrebbero essere i nostri verbi. Anzitutto entrare: entrare nella casa di Gesù, che non significa tanto entrare in chiesa, ma entrare nell’intimità con Gesù attraverso il silenzio e la preghiera. Poi vedere: vedere con gli occhi della fede la presenza del Signore nella nostra vita. Significativo è il fatto che i magi vedono il Bambino con Maria. Maria può essere davvero colei che ci fa scoprire la presenza di Gesù. Il terzo verbo può crearci qualche difficoltà, adesso che anche in chiesa difficilmente ci si inginocchia. Eppure unito al quarto verbo, l’adorare, dice un riconoscimento di una santità di Dio, che Dio è Dio e non un qualcosa di nostro, qualcosa a nostra disposizione: sarebbe un idolo. Davanti a Dio, come è stato chiesto a Mosè davanti al roveto ardente, occorre toglierci i sandali. E adorare, prima ancora che chiedere, pretendere, lamentarci o anche solo ringraziare. Anche gli altri due verbi sono da tenere insieme. Dicono che dobbiamo avere il coraggio davanti a Dio di aprire il nostro cuore e di offrirgli quello che abbiamo. Forse non oro, incenso e mirra, ma desideri, buoni propositi, qualche gesto di amore, ma il tutto intrecciato con fatiche, paure, peccati, egoismi. Ma il Signore non si spaventa: non ha bisogno di qualcosa di bello di noi, ma di noi stessi. Il vero dono siamo noi: un dono che Lui per primo ci ha donato. La nostra vita, la nostra persona ha senso solo se torna a Lui.

Non so se questa lettura dell’esperienza dei magi può esserci utile per capire e soprattutto vivere meglio la nostra vicenda di fede: me lo auguro e vorrei che fosse oggetto della nostra preghiera in questa solennità dell’Epifania.

+ vescovo Carlo