Attendere il Natale significa mettersi in gioco di fronte al mistero di Dio
Il Sermone nella chiesa evangelica metodista di Gorizia
14-12-2014

Il Vangelo di oggi (Mt 11,2-6) ci presenta la figura di Giovanni Battista. Una figura importante, al confine tra il Primo e il Secondo Testamento, tra l’attesa e la profezia, tra la speranza e il compimento.

L’impatto concreto con Gesù, con il suo agire il suo annunciare, che fa problema a Giovani, dice che anche per lui il mistero del Cristo non è scontato, non è ovvio: c’è comunque uno iato, un salto tra l’Atteso e il Venuto. Si comprende quindi la domanda di Giovanni presentata attraverso i suoi discepoli: «Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettare un altro?». La domanda sottintende una constatazione: “tu non corrispondi, almeno in parte, a quanto io, Giovanni, penso del Cristo. Tu non sei il Cristo che attendevo e a cui sentivo il dovere di preparare la strada. E allora delle due l’una: o tu non sei il Cristo, e allora dobbiamo aspettarne un altro, o lo sei, ma allora la mia attesa è stata sbagliata”.

Gesù prende sul serio l’obiezione del Battista. Non è una questione di scuola, ma esistenziale, perché Giovanni ha messo in gioco la sua vita a favore della sua missione di preparare la venuta imminente del Cristo: e se avesse sbagliato tutto? Per questo Gesù parla non di un generico dubbio teologico, neppure di una difficoltà alla fede, ma addirittura di uno “scandalo”: «Beato colui che non si sarà scandalizzato di me!». Anche a Giovanni Battista viene chiesta la fede, non come un dato ovvio corrispondente alle sue attese e neppure alle attese di Israele fondate sulle Scritture e sulle profezie. No, la fede non è mai ovvia: c’è sempre un’eccedenza del mistero di Dio rispetto ai nostri schemi, persino a quelli fondati sulla Scrittura e sulla attesa credente del popolo di Dio.

Attendere con fede il natale – per venire a noi – significa allora non aspettare, magari con tanto impegno e tanta disponibilità, un evento ripetitivo e ovvio, ma significa ancora una volta mettersi in gioco di fronte al mistero di Cristo. E’ Lui che deve determinare il nostro modo di pensare, di agire e più radicalmente di essere e non viceversa. Non Lui deve adeguarsi a noi, ma noi a Lui.

Questa apertura al mistero di Dio, alla sua trascendenza è assolutamente fondamentale. Troppe volte noi cristiani sembriamo dare Dio per scontato, per ovvio. No, Lui si è fatto come noi, ma non è come noi. C’è un’eccedenza di Dio nella nostra vita, che va rispettata. E solo se la Parola ci mette in questione, ci scandalizza, se la nostra fede resta sempre aperta alla novità e alla freschezza del mistero di Dio siamo sulla strada giusta. Vuol dire che non ci siamo chiusi nei nostri schemi e che, soprattutto, non abbiamo incasellato Dio nelle nostre idee, nelle nostre attese su di Lui.

Gesù, però, non si limita a sottolineare lo scandalo che può creare la sua figura, ma risponde alla domanda di Giovanni. Non è una risposta teorica, che tenti di dire al Battista chi sia realmente Gesù, spiegandogli le differenze rispetto alla figura di Messia che lui attendeva. Gesù invece risponde rinviando alla sua vita, alla sua azione di salvezza e al suo annuncio del Vangelo (la buona notizia) verso i ciechi, gli zoppi, i lebbrosi, i sordi, i morti, i poveri. La cosa è ancora più evidente nel brano parallelo di Lc 7,18-23, dove tra la domanda dei discepoli di Giovanni e la risposta di Gesù c’è un momento di sospensione in cui, annota l’evangelista, «in quella stessa ora, Gesù guarì molti da malattie, da infermità e da spiriti maligni, e a molti ciechi restituì la vista. Poi rispose loro…» (vv. 21-22). Gesù quindi risponde agendo. La sua azione concreta di liberazione dice il suo essere Messia. Lo è non presentandosi come giudice, che castiga i reprobi e ripristina così le prerogative di Dio, instaurando il suo regno, ma attuando il regno di misericordia del Padre. Gesù, con la sua parola e con il suo agire fa vedere che le beatitudini non sono solo enunciate, ma sono realtà. Contrariamente alla nostra mentalità, è vero che l’essere poveri, malati, disabili, sofferenti, peccatori non allontana dal regno, ma anzi rende destinatari della beatitudine del regno di Dio. Giovanni deve comprendere tutto ciò, rinunciando ai suoi schemi, alle sue attese. Deve convertirsi al regno come regno di grazia e di misericordia che già qui e ora rende beati, felici, gioiosi coloro che umanamente sembrano fuori da una prospettiva di realizzazione e di compiutezza. Ma Gesù è venuto per loro, per noi che siamo così.

Non solo Giovanni, ma noi stessi siamo chiamati a verificare e a mettere in forse i nostri schemi, le nostre attese, le nostre concettualizzazioni per aprirci alla novità inaspettata del Vangelo. E dobbiamo essere testimoni di questa novità, non per il gusto di scandalizzare i benpensanti, ma per offrire a tutti la vera immagine del Cristo, di Colui che è venuto per guarire, liberare, salvare, annunciare il Vangelo del regno di Dio. Amen.

† Vescovo Carlo